La vita che conducevano i primi abitanti del Faro e fino agli anni del dopoguerra era piuttosto grama. Il mare era l’unica fonte di vita e le risorse erano poche. Il tempo libero era raro poichè gli uomini erano sempre a pesca o quando era “malutempu” aggiustavano le attrezzature della pesca e le barche.
Gli unici divertrimenti erano quelli di prendere in giro, con scherzi, le persone meno argute. Oppure le domeniche mattina tutti “allicchettati” andavano a Messa od oziavano davanti alla chiesa per poi nel pomeriggio giocare ai birilli in mezzo alle strade, allora vuote. Facevano grandi partite a carte o grandi passeggiate canore, chi conosceva quest’arte, fino a Mortelle. L’agorazein, grandi passeggiate non solo domenicali, si sono continuate a fare fino agli anni 60/70 nella “strata nova” disquisendo di ogni cosa, ma soprattutto perchè in quell’epoca vi deambulavano anche le ragazze, e quindi nascevano amori e delusioni. Qualcuno si sbizzarriva anche a poetare: “Vecchiuo vialone, tu che tutto vedi e tutto senti…” – Poi vennero le automobili.
Negli anni precedenti vi era un po’ di brio soprattutto a Carnevale. Il mio vecchio ricorda che negli anni ‘50 durante un carnevale si fece un falso funerale con relativo morto accompagnato dallo spasso dei bambini e da moltissime persone, tra le quali vi parteciparono anche diversi creduloni che lo seguivano piangendo, mentre tutti gli altri lacrimavano per le grandi risate.
Altra volta, sempre in periodo carnascialesco, in una grande gabbia fatta con legni, montata su di un carretto, tirato da due cavalli, con dentro un finto detenuto che veniva trasportato per il paese mentre cantava sceneggiando: “I’ stongo carcerato e mamma more…” che strappava commozione e applausi mentre qualcuno gridava: “Lassatilu annari…è ‘n bonu figghiolu!” . Vi era poi un certo “Scarpavecchia”, una specie di clown tuttofare che con alcuni compagni faceva giochi di prestigio e di forza, nello slargo davanti al tabacchino Zanghì, per far divertire i bambini che vi partecipavano a frotte e quindi passava con il piattino per qualche soldo.
A fine anni ‘40 e inizio ‘50 dello scorso secolo veniva ogni tanto una sottospecie di circo che, nello spazio dove ora sorgono le case popolari, le sere d’estate, i loro componenti si esibivano in spettacoli con recite e sceneggiate e salti mortali che i nostri mai avevano visto e pertanto tutto il paese vi partecipava.
All’inizio tutto bene, ma poichè vi era sempre qualche signorina che si esibiva in costume piuttosto succinto per quell’epoca, per diverse sere, chissà perchè, qualche ora prima che iniziasse lo spettacolo, veniva a mancare la corrente, allora elargita dalla di fronte canonica. Un pomeriggio inoltrato, quando ormai erano rassegnati a saltare ancora la rappresentazione, sentirono gridare il “Cicciaro”, un gettabandi, che passava per tutte le strade del paese, seguito da frotte di bambini che ripetevano: “Si lavura ch’i lampari”. E così quei poveri cari artisti restarono ancora a far divertire la nostra gente.
Sempre in quel periodo vi passava spesso un cantastorie catanese che si portava appresso un grosso album con figure disegnate e che egli sfogliava a mo’ di libro, man mano che andava avanti con la storia. Questo poeta ci recitava le storie del bandito Giuliano, della baronessa di Carini e soprattutto la tragedia di Superga del Grande Torino. Aggiungo che i bambini erano stupefatti, meravigliati ed anche addolorati.
A fine anni ‘50 “Ciccinais” e fratello, insieme a Crisafulli aprirono il cinema Cariddi dove ora vi è il supermercato Alis. “Era sempre pieno”, dice il navigato, “se hai visto Nuovo Cinema Paradiso, era tale e quale, le stesse persone, le stesse scene…ed anche qui tutto finì con l’avvento della televisione”.
Vi erano poi le devozioni con le escursioni in Calabria. A Punta Pezzo il 2 luglio per la festa della Madonna delle Grazie, con le barche ancorate o lasciate in spiaggia di fronte alla chiesa. Essi andavano avanti e indietro per le bancarelle piene di leccornie e dopo la processione ritornavano alla sera alle barche e prima di riprendere voga per casa, si godevano i “giochifocu” dal mare. Ed a Seminara il 14 agosto per la festa della Madonna dei Poveri. Anche questo viaggio si faceva in barca fino a Palmi e da qui in pellegrinaggio si proseguiva a piedi fino al santuario della Vergine Nera.
I giochi dei fanciulli nascevano invece dalla loro inventiva. Giocavano al “paloggio”, trottola di legno con punta di chiodo. Vi era la “sculazzata”, errore nel lancio che non lo faceva girare, e i “puzzichi”, colpi con la punta dei vari paloggi a quello penalizzato. Inseguivano e acchiappavano le farfalle con una piccola rete legata a due canne gridando:” Ghialò, ghialò, abbassati pappagliò!”- Prendevano, con reti più grandi, “aret’a turi” o alla “marin’e fora”, le rondini che passavano basse in riva al mare. Soffiavano le cartine dei giocatori. Facevano carambolare i “busciuleddhi”, le conchigliette.
Lanciavano “i cciappi”, pezzi di marmo lisci verso il mattone con sopra le monetine “u mucciu”. Tiravano col “mannapetri”, fionda, a qualsiasi cosa si muovesse. Cavalcavano la canna-cavallo e si facevano guerre con spade ed archi e frecce, tutti fatti con legni e canne. Partite con palle fatte di pezza. Facevano correre “u ciccuni”, un cerchio di ruota di bicicletta guidandolo con una bacchetta. Spingevano e saltavano sui monopattini fatti con tavole e cuscinetti a sfere.
Saltavano, a turno, su file di coetanei proni recitando “quattru e quattrottu, cicirebottu, scaracanali, aceddhu cu ll’ali”. E nelle spiagge a “mmucciateddha”, nascondino tra le barche, e “ribba ribba”, lungo la riva, con le “friccineddhe”, fiocinelle fatte con forchette legate a canne, fiocinavano “curaneddhi, trigghiole, mazzuni, bufalotti, cocc’i papàia” e ogni altro pesciolino che veniva a tiro. I ragazzi più grandi andavano “a vapuri”, ad incontrare le navi che attraversavano lo Stretto, facendo “a riatta”, corsa, con altre barche, per arrivare primi a prendere le “lanne” e le “buttigghie” che gli equipaggi, italiani e stranieri, gettavano in mare con lettere per le loro famiglie, insieme a soldi per i francobolli, sigarette, cioccolato, latte condensato ed altri doni per quel singolarissimo servizio postale.
Le fanciulle invece andavano già alla “maistra”, da una maestra sarta, ad imparare a cucire e a ricamare per poi prepararsi il corredo per il loro futuro matrimonio. Prima di sposarsi c’era la “stima”, si stimava cioè il valore del corredo. Oggi la stima non si fa più e nemmeno l’esposizione dei regali che l’aveva sostituita. Per le ragazze lo scopo principale della loro vita era il matrimonio. Oggi, fortunatamente, esse possono studiare, frequentare l’università e realizzarsi con il lavoro.
Molte tradizioni sono andate perdute come ad esempio la “ntinn’a mari” che si svolgeva durante la festa del paese, l’8 settembre. Consisteva nel disporre orizzontalmente la lunga antenna della vecchia fulua, da terra verso il mare, e dopo averla ben ingrassata vi si facevano passar sopra i concorrenti che, per vincere, dovevano strappare una bandierina posta all’estremità più sottile dell’antenna.
Il divertimento durava molto tempo perchè il grasso faceva scivolare in mare i partecipanti tantissime volte. Pure la “cussa a nnatari”, gara di nuoto, si faceva durante la festa, ed ora non si effettua più. La foto a lato riprende uno degli ultimi vincitori, nel 1962, Larenzu “u bettularu” con la coppa vinta ed alcuni partecipanti alla gara. Sopravvive invece la “cussa ch’i bacchi”, gara con le barche, che prima si correva con i luntri e tutti gli equipaggi erano faroti, mentre ora la competizione avviene con le barche cosiddette “paciote” e vi partecipano equipaggi di tutta la riviera nord di Messina.
A quei tempi vi erano molte fontanelle per ristorarsi e per sciacquarsi venendo dal mare, e si andava con le “quattare” a riempire l’acqua per il fabbisogno domestico, poichè acqua in casa non ce n’era negli anni ‘50. In quegli anni è venuto ad abitare al Faro Don Paolo Calogero che dapprima si è industriato a vender caramelle che teneva in una cassettina a tracolla e poi con un trabiccolo a forma di prua di sandolino, con ruote, sella e pedali, allietava tutti i bambini ed anche i grandi, passando per il paese, la mattina con la “limonata”, granita limone, ed il pomeriggio con i gelati che teneva in dei pozzetti dentro il trabiccolo.
Dai primi anni ‘70 e fino all’87, durante i pomeriggi estivi, quasi tutti i giovani del paese si spostavano al campo sportivo, di fronte al cimitero, e quivi si giocavano i tornei di calcio ed a cui partecipavano diverse squadre, circa 6/8 per anno. All’inizio le squadre erano:”Audace – Capannina – Eden – Minico – Seabar – Silai.
Poi durante gli anni alcune sono rimaste, altre sono state sostituite, anche se i giocatori erano all’incirca gli stessi, da: Duetorri – Corsorosa – Giallorosso – Granatari – Indipendiente – Sciabàdomenico – Scuole -. Molti sapevano giocare, ma alcuni “ragazzi” giocavano con i …piedi e lo spasso era assicurato. In uno dei primi anni del suddetto torneo, alcuni volenterosi “pennaioli” fecero anche il giornalino della manifestazione. Tra gli spettatori vi erano pure ragazze e signore, e quindi in campo vi era grande accanimento e gli spalti erano sempre affollati. Poi alla fine del torneo vi era l’mmancabile sfida tra i rioni Palazzo contro Torre, e tra “scapoli” e “maritati”. Mentre la prima era una battaglia all’ultimo sangue per il prestigio dei quartieri, la seconda era di un’ilarità senza fine. Ma poi la sera, un po’ tutti i partecipanti, si rilassavano con una lauta cena.
Si svolge annualmente anche il rito delle “bamparizzi ‘i San Giuanni”, fuochi di San Giovanni. Alcuni giorni prima del 24 giugno, molti ragazzini di tutti i quartieri del paese, accatastano lungo la spiaggia, dalla Punta al Palazzo, tutti i tipi di legna e rami secchi che trovano in giro, facendo diversi cumuli, orgogliosamente alti, per poi accenderli, ognuno con la propria torcia, al calar della notte, per poi tuffarsi in mare.
Anche sulla costa calabra si celebra tale rito e lo Stretto, illuminato da così tanti falò, è di uno spettacolo particolarmente suggestivo ed è seguito, non soltanto dai paesani, ma da moltissime persone dei dintorni e finanche di Messina. Pare che questa tradizione sia dovuta per i rapporti di “cumparanza”, il cosiddetto San Giovanni, tra i pescatori calabresi ed i nostri che nei secoli scorsi stringevano tra loro per ragioni di pesca. Ma è anche la festa del solstizio d’estate e queste “bamparizze” accompagnano e salutano il sole nel suo nuovo cammino.
A Torre Faro, se si vuol cercare o indicare qualcuno si deve dire il suo soprannome altrimenti sarà difficile individuare quella persona, in quanto moltissimi hanno gli stessi nomi e cognomi. Molti hanno il soprannome familiare che se lo portano da moltissime generazioni, altri hanno quello personalissimo.
Il soprannome non è una “ngiuria” come parrebbe, ma è il burlare le persone per il loro modo fisico di essere: “bammineddhu”, piccolino che sembrava un bambinello – “bittularu”, bello con guance pendenti come bettole – “chiou”, dritto e secco come un chiodo – “faciulina”, snello come un fagiolino – “ianculinu”, biondo quasi bianco – “mmalutini”, lunghi come mmatule – “piccini” – “piccirilli” – ect. Oppure ironizzanti il loro comportamento:”caliuni” – “coppula”, che a pesca girava la coppola da una parte all’altra. – “cumazza”, che faceva schiuma quando parlava. – “brutt’i casa – malatesta – malafarina – malaspina – nfimminatu – robbapauri – spiritata” -.Od anche per il lavoro che svolgevano: “buttaru – ciaccaligna -nfimmeri – massareddhu – mastricchiu – patataru – villana”. E ancora canzonatorie: “balilla – buddhaci – caddhutu – cattarossa – llisciatu – marivazzu – nnachitipupa – oparossa – pisciboni – pisci ‘i brodu – moddhilatunnu – scassasipali – sardamola – tistazzi – trissoddi”. Dalle provenienze: “trummintoti – giggiuntanu – liunnisi – murialotu – massalisi – pammisana – saunisi – danisi – nglisi – palaccu”. Da nomi patronimici o matronimici:”dechi – japichi – menna – calurina – ninareddhi – pascali – paulacchi – pippareddhi – salamuneddhi”. Altri strani e oscuri: “iura – panga -tataci – zugghi”