Prima ancora che il villaggio fosse abitato e cioè verso la metà del XVI secolo, nella acque di Capo Peloro si praticava già la pesca del pescespada (Xiphias Gladius). Esso si catturava nel corso di battute pittoresche. Poichè nei periodi di riproduzione (mesi senza “r”) il pescespada abbandona i fondali e viene a “summu”, a galla, in quel tempo veniva avvistato da postazioni altolocate, soprattutto dalle colline calabresi, e tramite segnalazioni varie s’indirizzava l’imbarcazione verso di esso e lo si uccideva con il lancio di un arpione.

In seguito vennero costruite a mo’ di vedette le “fulue”, felughe che erano grossi e larghi barconi ben zavorrati per sostenere una “ntinna”, albero alto una ventina di metri su cui , tramite scalini di legno legati su di esso, saliva “u ntinneri”, un pescatore di buon occhio che doveva legarsi all’estremità superiore dell’albero poichè stava in piedi e quindi in equilibrio su una tavoletta fissata lassù in cima.

A questa imbarcazione con relativo equipaggio toccava giornalmente una “posta” che era un tratto di mare dove poteva pescare. La “fulua” veniva ancorata vicino alla costa siciliana, (poichè allora le felughe erano molte, ve ne erano spesso tre per ogni “posta” dette “fulua ‘i terra”, “fulua ‘i menzu” e “fulua ‘i fora”), tirata da una o più imbarcazioni più piccole dette “luntro” della lunghezza di 24 palmi, circa 6m. e molto strette e basse affinchè potessero essere velocissime e manovrabilissime.

Esternamente il “luntro” era pitturato di colore nero di modo che non venisse notato dal pescespada ed aveva un equipaggio di sei persone. Quattro rematori che a partire da prua verso poppa erano così disposti: “ a paleddha”, “u stremu” (che erano scalmati agli “ntinopuli”, bracci esterni connessi al luntro che prolungavano la leva del remo per il miglior governo della barca), “nta spaddha” e quindi il remo “‘i puppa”.

Il luntro veniva spinto con la poppa in avanti perchè così aveva più spazio il fiocinatore, che generalmente era “u patruni” e dove si tenevano gli attrezzi, “i ferri” e “i cannistri” con “i calomi” che erano corde che servivano poi per “maniare” il pesce quando veniva colpito. Vi era poi un piccolo albero di 3m. circa, fissato al centro del luntro detto “faleri” dove vi saliva il sesto pescatore. Quando l’antenniere avvistava lo spada, a seconda delle indicazioni che da questi riceveva il “faleroto”, indirizzava il luntro verso la posizione del pescespada gridando “va nterra” verso Sicilia, “va fora” verso Calabria, “va jusu” verso sud, Messina, “va susu” verso nord, Faro, “tuttu paru camora” avanti così, “firiila tunnu” inverti la direzione, “ncimiti l’asta” pronto con l’arpione.

Quando “u lanzaturi” scagliava l’arpione che aveva due orecchiette che si aprivano e trattenevano il pesce appena colpito, gridava “a San Marcu binidittu”, ringraziava il santo che gli aveva fatto catturare il pesce e quindi una volta issatolo nel luntro adempivano alla secolare incisione sulle sue branchie, “ a cardata da cruci”, con le unghie delle mani, una forma di croce larga quanto le dita, come segno di rispetto verso il pesce che gli faceva “buscare” il pane.

A tal proposito ci è rimasta una canzone ironica scritta da Matteu “u trabbanti”, soprannome che significava balbuziente e che fino ad una decina di anni fa la cantava Pascalinu “i Maruzzea”, accompagnandosi con la chitarra, quando gli si offriva qualche bicchiere di vino per sciacquarsi la bocca. I giovani non la conoscono ma il “marconi” la sa a memoria:

U canusciti o figghiu di Don Liu

Chiddhu chi si chiamava Minicheu

Avia na beddha casa e s’a vinniu

E fuiennu annava pi lu Puzzudeu

Cu ddhi pedi com’a du’ balati

E pani sinni manciava du’ nfunnati.

Mintitilu a vucari ‘nta la puppa

Ch’a la paleddha voca Peppi Nnappa, 

O stremu voca u figghiu di la Pruppa

E Pantaleu voca a menza bacca.

Liu Roccu Pasta omu scinziatu

‘Nchiana supra la puppa risulutu

E quannu ch’ucchia u piscispatu

Tattagghia a lingua comu’n mutu.

E mi s’incima l’asta si pigghia menza bacca

E a ogni tirata fa…’n bucu ‘nta ll’acqua.

E nui ci u dicemu a la Maggiota

Ogni sei misi mi… ci u dugna na vota.

Patruni ch’aviti sti marinaruni

Avannu faciti  na bona staciuni

Però priati a Diu e a tutti i santi

Non m’arristati cu pignateddhu vacanti.

 

Le “poste” delle fulue erano sorteggiate ad inizio stagione dal maresciallo della Capitaneria alla presenza dei padroni. Le fulue giornalmente ruotavano nelle poste fino all’ultima per poi ricominciare.

A partire da Capo Peloro, esse erano: “Supra a Punta – Fusseddha – Palazzu – Postanova – Canaluni – Salina – Gghiastru – Pizzuloddu – Beddha – Santati – Principi – Itàra – Tarèa – Piràinu – Rutta – Pettu – Fossa – Spina – Pricupara – Funtana”.

Tra i padroni di fulue di Torre Faro ricordiamo i: “Cammineddhi – Carana – Japichi – Pippareddhi – Pisciboni – Sabbitti – Tataci – Zimmilari”.

Verso la fine degli anni ‘50 del secolo appena trascorso, qualche ingegnoso pescatore inventò la “passerella”. Una specie di ponte che veniva fissato alla poppa del luntro e che fuorusciva per circa 8m., cosicchè il lanzatore era più facilitato nel suo compito poichè il pesce non sentiva arrivare la barca.

In seguito vennero abbandonati i remi ponendo un motore fuoribordo a prua che, con l’equipaggio, aveva il compito di zavorrare il luntro onde contrastare il peso della passerella. Il “falere” si fece più alto e con dei cavi d’acciaio sosteneva meglio quest’ultima. Venne modificato anche l’arpione che si costruì a forma di fiocina con due o tre “ferri” e con quattro orecchiette per ognuno di essi.

Poi, negli anni ‘60, i luntri e le fulue sono andati definitivamente in disarmo sostituiti via via da grosse barche, ostinatamente chiamate “fulue”, a doppi motori onde raggiungere velocità elevate, con passerelle sempre più lunghe, 35/40m. E antenne sempre più alte, 30/35m., con i comandi dei motori e del timone posti in cima ai tralicci e comandati dagli stessi antennieri.

Tuttociò per non lasciare nulla al caso ed arpionare quei pochi pesci che tansitano nello Stretto, perchè ormai le spadare li stanno riducendo inesorabilmente in quanto fanno una pesca a grandi profondità ed in tutte le stagioni, catturando anche i pescespada appena nati.

Questo stupendo pesce rischia quindi di sparire e ciò si nota anche dal fatto che nei mercati il prezzo sale vertiginosamente di anno in anno ed anche le “passerelle” sono rimaste pochissime. A Torre Faro vi è rimasta soltanto quella di Santino “Caliuni”.

Anche tutte le altre barche sono ormai cambiate. Non esistono più le barche delle “palamitare” che erano dei “buzzetti” di circa 12m., di strutture possente e avevano nella ruota di prua la “palameddha”, un caratteristico legno rialzato di oltre un metro che in alto terminava con una palla, pure di legno, variamente effigiata. Era spinta da otto  grandi remi o dalla vela quando c’era il giusto vento. Equipaggiata da una decina di persone che calavano la “palamitara”, una rete di cotone di circa 1000m.

Per la passa dei pescespada e delle “lalonghe” nel “mar’ì ll’aria”, al largo di Bagnara e di Palmi ed a sud dello Stretto, fra Scaletta e Giardini. Si calava questa rete la sera, quando si raggiungeva la giusta zona di pesca, lasciando, ad un capo di essa, la “campana”, un galleggiante con struttura di legno e sugheri su cui venivano posti un lume ed una campana che col movimento delle onde suonava, facendo conoscere la posizione del “mestiere” sia a quelli della barca che alle altre barche o navi che vi transitavano, in modo di evitare di passarci sopra. Si tirava anche due o tre volte per notte.

Per segnalare tra loro, di notte, i pescatori delle varie barche avevano la “brogna”, una grossa conchiglia su cui si faceva un foro all’estremità chiusa e che soffiandovi dentro emetteva un caratteristico suono che si propagava molto lontano.

Tra i padroni di “palamitare” di Torre Faro vi erano i: “Aricò – Caddhutu – Carana – Japichi – Liuni – Panzeddha – Puddhittu – Spizzica – ed una ventina di altri ancora. Queste reti furono dapprima sostituite da quelle di nylon, a fine anni ‘50, per poi definitivamente essere sostituite, insieme alle barche, dalle suddette “spadare”, che calate per km. all’entrata e all’uscita dello Stretto bloccano il transito dei pesci. 

Vi erano poi dei “buzzetti” più stretti e più leggeri delle palamitare, ma della stessa forma e lunghezza, con i quali si raggiungevano, a remi, velocità sostenute al fine di poter calare rapidamente le “ravastine”, reti per la pesca delle “lalonghe”. Queste barche si ancoravano a circa 20m. dalla spiaggia, a “muntari” a nord e a “scinniri” a sud, nella stessa posta delle fulue che, come queste, l’ottenevano con il sorteggio.

Quando passavano le alalunghe, l’antenniere gridava: “stativi lesti” preparatevi, e poi “nesci fora” cominciate ad uscire verso il largo, e quindi “moddha” quando dovevano iniziare a calare la “ravastina” e stringere velocemente i pesci che transitavano a branchi.

Quindi si tirava la rete, a mano, aiutati dall’equipaggio di un’altra barca, la “bacca arretu”, fino a formare una gabbia, tirando il piombo della “ravastina” e facendo “rumuru” cioè lanciando in mare in continuazione un’asta di legno alla cui estremità inferiore vi erano legati alcuni stracci bianchi ed il “camaci” che era una “màzzera” grossa pietra, pure bianca, con altri stracci bianchi, entrambi legati ad una cima per il recupero e altre pietre piuttosto grosse che si tenevano sulle prue, in modo da spaventare i pesci e costringerli a rimanere al centro della rete.

A tal uopo, anche i rematori che “mantenevano”, tenevano cioè in posizione le due barche, scagliavano potentissimi colpi di remi in mare. Quando si era tirato dentro il piombo rimaneva, con la parte sospesa dai sugheri, una specie di camera della morte delle tonnare, ed infine le alalunghe venivano issate a bordo come si faceva con i tonni, fra spume di acqua e sangue.

Il “marconi” si è trovato, una volta, con i suoi antenati “Aricò”, nella posta “gghiastru”, a prenderne 111 di cui la più grossa pesava 13 kg.

Tra i padroni di ravastine per le lalonghe del nostro paese vanno ricordati, tra gli altri: Gli “Aricò – Itani – Piccini – Pisciboni -”. 

Con lo stesso buzzetto, ma con una ravastina a maglia più piccola, i nostri pescatori facevano la pesca delle “costardelle” nel Canale e nel “marirossu” cioè a sud dello Stretto.

Quando se ne vedeva qualcuna saltare, ce n’era sicuramente un branco, oppure quando si vedeva una “rizzomita” cioè quando le costardelle con il loro becco, come le aguglie, fuori dall’acqua increspavano il mare, come se stesse piovendo, allora cercavano di calargli tutt’attorno la rete e stringerle nel mezzo per poi, allo stesso modo e con gli stessi rituali per le alalunghe, tiravano la rete.

E anche qui, una volta il “marconi” si è trovato con una pesca abbondantissima di oltre trecento chili, tant’è che vogavano con tutte le gambe sommerse dalle costardelle.

E quando le hanno portate al paese, poichè i rigattieri non le hanno comprate tutte che erano troppe, le hanno vendute in spiaggia a tutto il paese a cento lire al piatto. A Torre Faro avevano barche e ravastine per le costardelle, tra gli altri: Gli “Aricò – Japichi – Vadalà – Zimmilari -”.

Poi, con l’avvento delle passerelle, questi due tipi di pesca i faroti non l’effettuarono più ed il mio “raccoglitore di ricordi”, che vi partecipava, mi racconta che era un tipo di pesca bellissima da vedere e spettacolosa nello svolgersi poichè metteva in evidenza l’abilita dei pescatori nelle manovre, nella conoscenza delle correnti, dei venti e nell’utilizzo delle reti.

Da marzo a luglio si pescava con le palamitare, da maggio ad agosto con le fulue a pescespada, agosto e settembre con le fulue e ravastine per le alalunghe ed anche con le ravastine delle costardelle. Nell’autunno inoltrato disarmavano le fulue e le ravastine e per tutto l’inverno facevano la pesca, nei giorni di buon tempo, con la “sciabbica” e con reti più piccole “sciabbachelli”.

I faroti che possedevano sciabbiche erano, tra gli altri: Gli “Aricò – Ciciraru – Briscula – Mmalutini – Pisciboni – Ricchiazzi – Spizzica – Vadalà”.

Fino agli anni ‘90 del secolo scorso vi era ancora qualche “buzzettu” che a “Muttiddha”, a “Quattaioli” e a “Culonia” calavano la sciabbica, una lunga rete a strascico che veniva messa in mare in quelle zone di Mortelle, a seconda delle “reme”, nei fondali sabbiosi per evitare di restare “ncucciati” in qualche scoglio. Rete che finiva a mo’ di sacco con maglie molto più piccole di quelle laterali ed a cui si legava il “pizzali”, parte laterale finale del sacco che si slegava poi per poter trasferire i pesci nei grandi “coppi” o nei recipienti. Si calava molto al largo e perciò si aggiungevano anche molte corde da entrambi i lati nelle due “stazze”, gli inizi della rete, ed essendo quindi molto pesante tirarla a riva, 10/15 pescatori per ogni lato si aiutavano con le “cuddhane”  che erano fascie di tela legate alle due estremità da una robusta cima che terminava con un pezzetto di legno o di canna di una ventina di cm.

Si utilizzava indossandola a tracolla, legando la parte finale della cima, per mezzo di quel pezzetto di legno, alla corda o alla rete che si tirava, fin sulla spiaggia alta dove un ultimo pescatore la raccoglieva, per poi ritornare nella battigia per ricominciare. Così facendo avevano la possibilità di tirare la sciabbica con tutta forza della schiena e del corpo.

Nella legatura, il legnetto non permetteva al nodo di scivolare. In quegli anni c’è stato l’avvento del motore ed era più facile calare la rete e si prendevano per lo più pesci di passa, perchè nella sabbia non si distruggeva l’ambiente marino e si faceva questa pesca da ottobre ad aprile e poi ci si fermava per fare le altre suddette pesche. Dalla fine di quegli anni una legge per la riproduzione della fauna marina (sbagliata a mio parere) non permette più di tirare la rete dalla spiaggia e per un periodo breve successivo la rete veniva tirata dal mare stesso, ad una decina di metri dalla battigia.

Si raccoglie così dalla stessa barca per mezzo di due verricelli posti uno a prua e l’altro a poppa ed azionati dallo stesso motore. Pertanto bastano pochissimi pescatori per eseguire questo lavoro e benchè facciano di tutto per spaventare i pesci al culmine della levata, una buona parte di questi se la filano con grande rammarico degli sciabbacoti che capiscono che questo modo di pescare sta per finire. Ormai solo due sciabbiche sono rimaste nel nostro paese, quella di Ninu e Liu i “Ianchi”, con la barca di Canniloru “Piscibonu” e quella di Giuanninu u “Sabbittu”.

Per quanto riguarda gli “sciabbachelli” è rimasto quelli dei “Ianchi” e qualche altro che però sono rarissimamente utilizzati. Questa rete è simile alla sciabbica ma molto più piccola e si cala sulla Punta per prendere “cicireddha”, “maiatica” cioè neonata di sardine, e “russuliddha” cioè neonata di cicirella. Anche le barche sono di forma differente e munite di motori diesel per spostarsi velocemente. 

I faroti, che per secoli hanno vissuto di mare e col mare fino agli anni ‘50 del secolo appena trascorso, erano soprattutto pescatori e i loro figli sono andati a fare i marinai sulle navi e i figli dei figli hanno studiato ma sono andati sempre per mare a fare i comandanti, i direttori di macchina e gli ufficiali, mentre le ultime generazioni, noi, andiamo tutti a continuare gli studi all’università. Il benessere ci ha fatto allontanare dal mare. Per alcuni di noi la pesca è soltanto un passatempo che si effettua solo d’estate e non viviamo più di mare.

Alcuni tipi di pesca che facevano i nostri avi sono però rimaste, anche se per hobby. Andare nel Canale col “rampino”, che è una lunga lenza col letto di nylon del diametro di ½ millimetri e che ogni 2 metri porta un “brazzolo”, bracciolo con filo più sottile, lungo un passo circa, alla cui estremità vi è legato l’amo. Queste lenze sono di circa 200/300 ami e con le quali si pesca sui fondali dello Stretto prendendo mupi, lupi,scazzupuli, laustri, murini, arunghi eccetera.

Il “conzo” invece è simile al rampino ma più robusto e più “chiaro” cioè la distanza tra un brazzolo e l’altro è di circa 5 metri. Si cala nel Tirreno a varie profondità e si prendono spatole, merluzzi e nei tempi passati anche i pauri che oggidì sono quasi scomparsi dai nostri mari. Alcuni tra i più grandi “conzalori” e “rampinari” del nostro paese erano: I “Lipotti” – Pascali – Piattari – Spinnati – Vadalà”. Questi tipi di palangresi vengono costruiti dagli stessi pescatori e calati nei vari “sinni”, allineamenti con punti fermi a terra di modo che cadano nel posto giusto per la pesca che si vuole fare: “a nigghiata – a cala arunghi – a rina ianca ‘i fora – capu cu capu” – eccetera. Mentre nel Canale: “a Punta c’a Cresia – a punta u Sciggiu – u piluni c’u l’abbarazzu” – eccetera. Ma ormai i più scaltri adoperano GPS e scandagli, strumenti che danno posizioni e fan vedere il fondo marino.

Altri passatempi sono le “traine” lenze a traino che possono essere piccole o grosse e si pescano dalle aguglie, cavagnole, pesantoni, tonnacchioli, palamiti eccetera, fino alle più grosse ricciole e tonni. Le “filose”, lenze per pescare sauri, ope, alacce, sarde e poi le piccole reti “mutulara” a maglia piccola per la pesca dei mutili o pesantoni e poi la “lacciara”, la “minaita” e la “ugghiara” che si usavano un tempo per le alacce, acciughe e aguglie e quindi il “baddazzuni”, per ope e simili, il “cianciolo” che veniva usato di notte con la lampara per prendere acciughe e sarde, il “trimmagghi” costituito da tre reti con differenti maglie che si lasciava sul fondo per l’intera notte e che catturava pesci di varie specie e taglie ed infine il “rizzagghiu” rete di forma tonda, col solo piombo che si lanciava a braccia dalla riva per prendere i cefali e con un sistema di cime veniva richiuso in mare e poi tirato.

Anche queste reti ormai non si usano quasi più. Con le fiocine ancora si catturano le “mole” e le “augghi ‘mpiriali”, aguglie imperiali grosse quasi come piccoli pescespada. Qualcuno ancora cala le “nasse”, trappole con cui si pescano gamberi, aragoste, lupi e pesci di fondale. I “Tataci” pescano ancora dalla barca con le “pruppare”. La notte, durante l’estate, si va ancora con gli “otranti” per la pesca di totani e calamari.

Questa è una lenza  che termina con un manicotto di piombo intorno a cui vi sono fissati molti aculei a corona e sul quale si lega un pesce o una forma di pesce o ancora l’uso di una fonte luminosa che attirano il totano e quando la lenza viene pesante si da uno strattone ed il pesce rimane attaccato agli aculei.

Attualmente quasi tutti adoperano il “siluro”, una potente fonte di luminescenza all’interno di un involucro di stagno che viene calata a notevoli profondità, perchè ormai questi molluschi non si trovano più in acque di 30/40 passi, per essere quindi tirata lentamente a mezzo di un piccolo verricello.

I totani, seguendo la luce, vengono portati ad acqua di circa 20 passi e poi pescati con i vecchi “otranti”. Però totani se ne prendono sempre pochi in quanto il mare è infestato di voraci “fere”, i delfini che fanno piazza pulita man mano che lo strumento porta a galla questi pesci.

Le aguglie un tempo si pescavano con una lunga canna nella cui parte terminale della lenza vi era legato “u nebbu p’augghi”, un nervo di bue lavorato e tinto in modo particolare che lanciato in mare attirava i pesci e nel morderlo vi restavano attaccati con i loro dentuzzi. Nelle sere d’estate senza luna, barcate di ragazzi e ragazze si divertono ancora nelle barche con le lampare a prendere il fresco e coi “coppi”, raccolgono dal mare “augghi e curaneddhi”, quando ce ne sono.

Realtà antichissime restano ancora vive a fianco all’ultramoderno: dalla “sciabbica” all’ecoscandaglio, dalla barca del pescatore al peschereccio devastatore dei fondali marini. Comunque la maggior parte dei “cariddoti” che vanno per mare conoscono a perfezione il fenomeno delle “reme”, correnti: “Scinnenti” se diretta a sud e “Muntanti” se verso nord.

Esse dipendono soprattutto dall’attrazione lunare ed un po’ meno da quella solare e dalla circolazione mediterranea. Correnti, controcorrenti e “refuli”, garofali, che nei periodi in cui sole e luna sono allineati tra loro (sigizie), e secondo l’età della marea,  raggiungono velocità che superano i 5 nodi.