Ho volutamente citato per ultimo il Verga soltanto per lo spunto che ha dato al “Marconi” per “contarmi” fin da piccolo, a modo suo, di Peloro, mito fantasioso che però lo preferisco agli altri.
Dice che Peloro lo chiamavano così perchè aveva i capelli color dell’oro e nessuno in quella zona di mare conosceva il suo vero nome. Egli visse molto tempo fa ed era un giovane bello, virile e provetto pescatore che andava a pescare sempre nel mare occidentale di quella parte più stretta della penisola.
Su una rupe di fronte viveva una dolcissima fanciulla che aveva una stupenda voce di sirena. Quando Scilla, questo era il suo nome, vide quell’affascinante giovane se ne innamorò perdutamente e così giornalmente gli dedicava canti d’amore. Peloro, ammaliato da quella soavissima voce, trafitto dallo strale di Eros, salì sulla rupe ed amò Scilla, riamato appassionatamente.
Questo amore suscitò la vendicativa gelosia della maga Circe che era innamorata di Peloro e, “cuttigghiara”, lo riferì a Poseidone, il dio del mare che a sua volta era invaghito di Scilla.
Il governatore talassocratico nonchè “scuotitore” così tanto s’adirò che con un colpo del suo spietato tridente tranciò quella striscia di terra sicchè si scontrarono gli sterminati liquidi ionici e tirrenici e si formò lo Stretto. Tramutò poi Scilla in uno scoglio da un lato e Peloro in una lingua di sabbia e paludi lacustri dall’altra.
Così questo sconsolato è condannato, allungando il più possibile le bianche braccia sabbiose, tentando di raggiungere il suo disperato roccioso amore. E quali amanti costretti allo sguardo dalla vicina lontananza alla luce del giorno, sono però legati per sempre nel profondo buio marino.
Questa leggenda, tuttavia, contiene un po’ di verità. Circa cinque milioni di anni fa un potentissimo sconquassamento tellurico, un enorme cataclisma ha probabilmente aperto questo varco oppure una lenta e continua attività di erosione dell’acqua ha creatoquesta divione oppure entrambe le cose han fatto sì che il mare d’Etruria e quello di Grecia si mischiassero, amalgamandosi, come poi in seguito avvenne per le due culture.
Che poi il mito di Scilla e Cariddi abbia origine probabilmente dai Pelasgi, dai Fenici o dai Focesi che primi navigarono questo tratto di mare con le loro barche a remi e vele mentre si spostavano per i loro traffici in tutto il Mediterraneo, lo straordinario, per gli agghiaccianti pericoli che correvano al passaggio dello Stretto, tra lo scoglio di Scilla e i gorghi di Cariddi, è possibile che quest’imbuto, questo fiume turchino, col suo mito, non è altro che la metafora della vita: questo angusto, angosciato, vincolato transito è il momento in cui ci si può smarrire, in cui si può perdere il senno, in cui si può andare alla deriva.
Andare a sbattere contro lo scoglio oppure nel gorgo di un animo perfido, malvagio, spietato. Altrimenti, nel corso prodigioso della vita, potremo cavarcela allontanandoci dal mostruoso disordine e come naufraghi spiaggiarci nel raziocinio e nella civiltà, nell’intelligenza e nell’amore.
In effetti in questo piccolo imponente Stretto vi si sono radunati abissali subissi di tempeste e di sofferenze: Terremoti e maremoti che l’hanno distrutto e annientato più volte.