Ognuno di noi sa che Omero, Virgilio, Dante e tanti altri poeti e scrittori hanno decantato Scilla e Cariddi, sirene e naviganti, “reme” e gorghi, Colapesce e Morgana, mare e venti, odori e sapori del nostro Stretto. A me piace piuttosto ricordare i nostri poeti-scrittori: Stefano D’Arrigo in “Horcynus Orca”:

“…Cariddi, una quarantina di case a testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nuvolaglia nera, visavì con Scilla sulla linea dei Due Mari…”

“…Era quello lì lo scill’e cariddi un terribilio di mare, bene a sapersi, anzi di doppiomare, un francispagna di reme sotto e reme sopra, di bastardelli col pelo arruffato e tradimentosi…”

“…giusto al Golfo dell’Aria, che era il mare più bazzicato dai cariddoti che arrancavano là a forza di braccia sulle palamitare quando lo scill’e cariddi pareva seccarsi nella carestia.”-

Gesualdo Bufalino in “La luce o il lutto”:

“…E’ come se navigando tra Scilla e Cariddi sul solco della nave due sirene affiorassero e vi tentassero con due lusinghe contrarie: una celeste, che parla di gelsomini d’Arabia, letizia di luna, spiagge simili a guance dorate, l’altra scura, infera, con mezzogiorni ciechi a picco sulle trazzere e sangue che s’asciuga adagio ai piedi di un vecchio ulivo…”-

Vincenzo Consolo in “Di qua dal faro”:

“…il mare, questo stretto solcato d’ogni traghetto e nave d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo. Inciso nel suo azzurro, nel luglio, nell’agosto, dalle linee nere, dai ferri degli altissimi tralicci, alti quanto quei delle campate ch’oscillano sul mare, dal Faro a Scilla, che sono ormai l’antenne verticali e quelle orizzontali, ritte come spade sui musi delle prore, delle feluche odierne chiamate passerelle. Ferme, in attesa, ciascuna della sua posta, o erranti, rapide e rombanti, alla cattura del povero animale…”

“…ancora quasi lattanti non lasciavamo in casa a nostra madre forchette per mangiare, che legavamo in cima a una canna a mo’ di fiocina per infilzare polipi, bollaci, costardelle, ogni pesce che per ventura capitava a tiro del nostro occhio e braccio. Era l’istinto che ci portava verso il mestiere, come aveva portato nostro padre, suo padre indietro, ci portava verso il destino del mare, dello Stretto, del pesce spada, sopra feluche e lontri, ci portava a lance, palamidare, palangresi…”

Giovanni Verga in “Di là del mare”:

“…E le coste che si coronavano di spuma; a sinistra la Calabria, a destra la Punta del Faro, sabbiosa, Cariddi che allungava le braccia bianche verso Scilla rocciosa e altera. All’improvviso, nella lunga linea della costa che sembrava unita, si aperse lo stretto come un fiume turchino, e al di là il mare che si allungava nuovamente sterminato…”

D’Arrigo poeta del “duemari”. Bufalino, Consolo e Verga poeti del reale, dell’identità.